Sguardi Lontani
Non è facile descrivere con una foto un attimo, un sentimento, un'emozione. Il fine ultimo di ogni fotografo è questo.Rivedendo gli scatti contenuti in questo interessantissimo libro ritengo che l'autore abbia centrato totalmente il suo intento.Le sue foto provocano forti emozioni: tristezza, gioia, curiosità, allegria , attraverso i volti delle persone ritratte, si vede e si vive la quotidianità di questi popoli così lontani e non solo in senso fisico da noi e dalla nostra realtà. Particolarmente interessante quella scattata attraverso il vetro dell'auto, quasi a separare due mondi totalmente differenti, che si incontrano e si osservano, con un po' di rammarico, sapendo di non poter appartenere ne all'uno ne all'altro se non per il breve momento in cui l'otturatore della macchina fotografica rimane aperto.
I volti solcati dall'età, le mamme affettuose, li uomini intenti al lavoro, la tenera foto di un bambino che piange, scatti eseguiti con superba maestria. Un sincero ringraziamento a Luca per avermi reso partecipe di quest'opera che ritengo piena di emozioni da vivere pagina dopo pagina, fino alla fine.
Domenico Addotta, 2006
Photos, of course…
Of course, Luca Forno è fotografo di Persone e Cose. E l'apodittica quanto veritiera perentorietà di tale assunto è testimoniata in bella evidenza dalle fotografie di questo reportage: Nero su Bianco, sic et simpliciter… La felice intuizione di affidare al Nostro la realizzazione di molte di queste fotografie è solo superata, in positivo, dagli esiti fastosamente inusitati di un pittorico (in senso stretto) quanto pittoresco (in senso lato) bianco e nero. Un 'black and white' peraltro pirotecnico all'incontrario laddove, nella sua rappresentazione policroma duale, fa implodere il significato dell'immagine in una straordinaria mescolanza dell'uno nell'altro… Ecco perché questi 'infiniti istanti' (direbbe Geoff Dyer) che sono le fotografie di Luca Forno, non sono (direbbe Giuseppe Pinna) "mezzi di verità, ma effetti di verità, verosimiglianze" giacché - per dirla con l'ineffabile Karl Kraus - vale per la fotografia quel che diceva per l'aforisma: "non coincide mai con la verità, o è una mezza verità o è una verità e mezzo". Qui, allora, il nocciolo della questione che Forno - in queste foto - consapevolmente pone e - con queste foto - a suo modo risolve, e cioè: la Consapevolezza che il Fotografo manifesta è duplice, la Soluzione che l'Autore tenta è molteplice. Duplice consapevolezza, dunque: dei propri mezzi, e l'interezza di questo portfolio - nel sapiente uso della dicotomia cromatica chiaroscurale - ce ne dice largamente, vedere per credere… ma certo pure (consapevolezza) del proprio mezzo laddove, scatto dopo scatto, Forno ripercorre con sottile eleganza di riferimenti e con procedimento, si direbbe, à rebours la Storia della Fotografia in Bianco e Nero, passando - tra gli altri - da Mario Giacomelli a André Kertész per giungere fino a Walker Evans, infine memore praticante della lezione di Dorothea Lange per cui "la macchina fotografica è uno strumento che insegna alle persone come vedere senza la macchina". Allora, l'approssimazione interpretativa di queste immagini avviene sempre per difetto, mai per eccesso: i soggetti fotografati (persone e cose) dicono molto, le fotografie di Forno (Persone e Cose) intuiscono di più… Insomma Luca Forno ci offre una sineddoche visiva in cui il passaggio dal particolare al tutto e/o viceversa viene continuamente evocato e stimolato dal talento dell'Autore.
Marco Riolfo , 2009
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Tra Realismo ed Astrazione
Non è facile scrivere di fotografia contemporanea. Le immagini fanno parte di un mondo che troppo ci coinvolge per essere oggetto di una disamina serena. La reazione emotiva è in agguato, la soggettività prorompe, e si rischia di parlare di sé, più che delle fotografie. Per difendermi dal rischio, propongo un compromesso: nelle poche righe che mi sono concesse provo a evocare, sì, cò che è affiorato nella mia mente di fronte a queste immagini; ma rimanendo nello stretto ambito fotografico. Spontaneamente, lo confesso, dopo aver sfogliato poche pagine (per la precisione, dopo aver azionato alcune volte il mouse) - chiedo scusa in anticipo per la mia deformazione scolastica-, la memoria visiva mi ha portata a Edward Weston. Ho continuato e, forse suggestionata dalla strada imboccata, ho pensato a Dorothea Lange. Scusate se è poco: potrei fare altri nomi, ma mi pare che questi siano sufficienti; e che Luca non potrà aversene a male. Weston oscillava consapevolmente tra due orientamenti, l'astrazione e il realismo, e riusciva miracolosamente, spesso, a farli combaciare. Portava la realtà alle estreme conseguenze, fino a perderne l'oggetto, sfiorando il virtuosismo. Cercava la perfezione tecnica considerandola l'unico veicolo possibile per ogni valore, emotivo o conoscitivo. La ricerca visiva di Luca Forno non arriva a questi equilibrismi, si mantiene spesso più ancorata al vero, ma non è del tutto estranea a quell'esperienza, in qualche misura l'ha respirata e introiettata. Lange non proponeva dei ritratti, ma delle immagini di persone, di cui sapeva restituire il dramma umano senza enfasi, con rispetto, solidarietà, discrezione, a volte perfino grazia. Eppure i suoi volti sono folgoranti, e hanno segnato profondamente la nostra percezione, non solo visiva, della realtà. Ecco, mi pare che questa grande lezione - oggi purtroppo spesso dimenticata da tanta fotografia - Luca Forno l'abbia appresa davvero, in profondità.
Elisabetta Papone, 2010
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Sembianze di Voci e di Silenzi
Forse la cifra stilistica di queste fotografie di Luca Forno è determinata dalla tendenza a contaminare la realtà delle cose attraverso un uso drammatico del bianco e nero che - mai come nel caso del Nostro - simula alterità, spalanca abissi su spazi contigui ma estranei, a volte e non di rado perturbanti… Siamo in prossimità della luccicanza, del realismo magico, ed è con non poco turbamento che ci aggiriamo fra questi volti e questi paesaggi non-sembianti che non sono ciò che sembrano. Dubitiamo della nostra percezione visiva e ciò basta a farci abbandonare tout-court la strada maestra delle nostre certezze, a farci oltrepassare (con apprensione? con curiosità?) la soglia del nostro mondo conosciuto, la sottile linea d'ombra che separa la realtà del mondo fisico dal nostro non meno reale immaginario… Tra quello che sappiamo essere rappresentato e quello che invece i sensi ingannati registrano, si crea così un corto circuito che ci fa deragliare dai binari prestabiliti e sprofondare al di là dello specchio. E non ci può salvare la rassicurante immagine di un fanciullesco sorriso perché accanto troviamo una vanitas, che civettuola si schernisce da dietro un velo pur senza nasconderci le sue orbite ed i suoi denti di teschio. Forse queste istantanee sono l'improbabile fotografia 'esatta' di un archetipo culturale - potremmo dire: il memento mori? - la cui riconoscibilità iconografica è talmente radicata nella nostra storia da essere universalmente ed immediatamente fruita. Voci e Silenzi delle nostre inquietudini dunque, che - a dispetto della molteplicità fisiognomica dei ritratti 'vocianti' (per un quasi catalogo etnografico) non diversamente dalla varietà geografica dei paesaggi 'silenti' - ricostruiscono, nella caotica enumerazione delle immagini, un unicum di umano e naturale disfacimento. Forse un inno, una ballata della fine, una patetica sinfonia di un mondo che accanto alle ferite ed alle crudezze della decomposizione conserva intatte tracce, ancora superbe e splendenti, di una mitica Età dell'Oro. O forse, queste fotografie, a ben vedere, a ben dire…
Marco Riolfo, 2011
L'ignoto inatteso
Se la fotografia è una sfida continua alle leggi della bidimensionalità, questi brani visivi hanno qualcosa di più. Tutta la fotografia "porta il suo referente con sé" (Roland Barthes) e quando è grande, coglie il significante fotografico. La cattiva fotografia marcisce di banalità splendenti e permea l'oggetto della sua attenzione nella celebrazione del mondano. Qui il segno forte delle immagini diventa l'incipit di una storia vera, che conduce sguardo e coscienza ad un dilemma necessario: fare i conti con un "altrove", così lontano, così vicino. La sintesi e la grammatica precisa e raffinata della mancanza del colore, è un insieme di regole ed eccezioni che Luca Forno conosce bene, declinate senza incertezze, con l'esperienza che sola può far decidere "dove mettersi e quando scattare" vera sapienza fotografica. Ogni fotografia è un lemma di una lingua universale. Un racconto fluido, svestito di qualsiasi retorica, mediato da occhi profondi, arriva direttamente al centro emozionale di chi guarda. Suggestioni e stupore di un mondo che appare fuori della storia, dove tutto sembra sospeso senza dimensione e senza tempo, intriso di un'aura di estatica sacralità, latore di una percezione di appartenenza, di empatia, genius loci che si "respira", diventa la coscienza del luogo e sussurra storie senza storia, in una spirale in cui ognuno viene avvolto. Allora le emozioni affiorano in superficie, e nella inquadratura, come "esclusione del resto " , trovano il loro approdo. La bellezza, qui raccolta intorno a un fulcro silenzioso, dialoga con i nostri sensi, con il linguaggio della realtà, nella perfezione tecnica, e della verità, nella visione stilistica.
Lucy Franco, 2011
Luca Forno - Il fotografo delle voci e del silenzio
La solitudine (più che dei numeri primi degli eterni ritorni) nel silenzioso dialogo tra gli spazi. Nei tempi che dei volti (precisi o meno precisamente detti) intuiscono perfino i dettagli - riconoscibili - del proprio futuro, presente e passato. Perché le immensità del cuore smentiscono spesso i loro limiti a favore di visioni; appunto isolate ma non solitarie: uniche loro identità perché devono far sempre, alla fine, i conti con la loro grandezza. Immagini devastanti, non solo perché interrogano l'infinità degli spazi solcati dall'uomo (il deserto, il cielo, il volto del prossimo nella sua necessità di accoglienza, alla Lévinas) ma anche, soprattutto, quelli dell'anima ossia gli unici che rimarranno dopo il cadere del corpo; quando perdurerà solo il ricordo dei sorrisi, degli sguardi, degli sfioramenti del mondo. In merito a quanto detto infatti - e a maggior ragione - le foto di Luca Forno - a nostro avviso, e senza il più classico dei probabilmente, uno dei maggiori fotografi italiani - sono eternamente evocative: infrangono la riconoscibilità del tempo ma nel con-tempo (mi si perdonerà qui l'inevitabile heideggeriano gioco di parole) sono accurate, dettagliate, particolareggiate fino a creare un'altra realtà rispetto a quella che mostrano. Del resto, questo è l'obiettivo - si dirà facilmente - di chi fa il fotografo, ma quanta autentica differenza c'è tra chi fa e chi è fotografo? Quella appunto di ricostruire un mondo dopo averne sintetizzato un altro: quello visionariamente visto, ossia, per l'appunto, quello che supera infinitamente ciò che nell'ordinarietà delle cose vediamo o crediamo di vedere come 'nostro' mondo. E questo non è sempre scontato, si badi. Almeno non nel caso di Luca Forno. I suoi "silenzi" infatti - una delle serie più conosciute e ri-conoscibili insieme ai "ritratti" - ci 'parlano'. Non solo dei luoghi che descrivono, certamente, ma anche di ciò che mai ci immagineremmo di trovare, che mai ci aspetteremmo di vedere: segni che appaiono man mano, voci che si affacciano all'identità della nostra coscienza e che scrutando dentro l'abisso che vi si trova (perché, come disse Nietzsche in Al di là del bene e del male, "se guarderai a lungo nell'abisso, anche l'abisso guarderà dentro di te") ci rivelano quel che non sappiamo guardare nel nostro Io. Quel che abbiamo dimenticato, ciò che va 'rammemorato' - per chiamare ancora in causa Heidegger - cioè cogliere (ri-conoscere) il 'detto' che non ha bisogno di esser pronunziato - se non in una determinata rivelazione - la fisionomia che in uno sguardo dona la forma, l'idea che si fa carne e colore in un'istantanea pur restando, rigorosamente, in bianco e nero. Gli scatti (nel tempo, nello spazio) di Luca Forno, infatti, proprio di questo ci parlano: della luce che non sa inseguire l'ombra, delle frecce che indicano il cielo, del grano e della terra che si infrangono e scontrano sotto lo sguardo di un solo albero intento a contare le linee dei suoi anni, della terra inaridita sedimentata in rivoli infiniti o ancora del vento che insegue infinitamente la sabbia o del calore il suo vapore; talvolta con spazi di denuncia, come nel caso delle ciminiere che avvelenano il nostro poi. In questo senso anche i suoi 'ritratti' - nella rilevanza dei dettagli, nella loro ricercata fisiognomica che, anche qui, trasfigurano identità e personalità di quel che vediamo - non solo raccontano storie molto distanti tra loro, ma soprattutto ci dicono di sentimenti e sensazioni che forse, troppo spesso - nella dinamicità temporale del nostro fare - sentiamo da noi ormai troppo lontane. E anche qui, del resto, i 'racconti' si moltiplicano in nuove visioni: la rabbia accesa ma trattenuta di uno sguardo che da solo conquisterebbe il mondo, la pacatezza e semplicità di un altro che invece lo lascerebbe conquistare, lo strazio di un bimbo in pieno sole o il sorriso velato di chi ha visto troppe promesse non mantenute, la curiosità fanciullesca dietro a dei bianchi capelli o l'occhio austero di un bramino stanco, di un fiore con gli occhi neri (di una perla con sorriso) o dell'oscurità resa volto e sguardo interrogante. Questi sono i ritratti che 'dicono' e i silenzi che 'parlano' di Luca Forno; questi sono i tratti del mondo decostruito prima e trasfigurato dopo che ci renderanno sempre e per sempre -per dirla ancora con le parole di Nietzsche - "innamorati della nostra stanchezza della terra!". A ben vedere. A ben dire. Ringraziando Luca.
Gianni Vattimo e Glauco Tiengo, 2011
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Di come un Fotografo compone Haiku...
Se c'è un luogo geografico, sul tribolato pianeta, che ancora può offrire ad un viaggiatore cinico e disincantato, se non la realtà, il ricordo di un rapporto privilegiato col sinuoso vagabondare proprio dell'esistenza, allora il Giappone era ed è la meta inevitabile di un fotografo camminatore, partecipe e meravigliato come Luca Forno...
Varie, le realtà geografiche e produttive fin qui esplorate dal Nostro su incarico della Coeclerici, e mirabili le sue sintesi fotografiche che hanno dato conto, al contempo, della capacità d'impresa dell'Azienda e dell'Impresa capace di visione (financo fotografica, appunto)... Ma davvero, (anche) questa volta, a Forno riesce un compendio figurativo della realtà fisica e simbolica dell'Isola orientale degno della miglior pennellata di un calligrafo giapponese, omaggio occidentale ad una delle più tipiche forme d'arte orientali, lo shod?... E certo l'oramai ben noto biancoenero del Fotografo ben sostanzia - senza la presunzione di sostituirlo - il nero inchiostro (il sumi, prodotto partendo dal carbone: un segno, of course...) ed il foglio bianco del Calligrafo (l' hanshi), opportunamente allocato su di un panno assorbente nero (lo shitajiki)... Ed il risultato, ancorché fotografico, e' da leggersi più che da vedersi, esattamente (forse) come la calligrafia giapponese e' da vedersi prim'ancora di leggersi...
Allora la vitalità lavorativa dei volti orientali di oggi può tranquillamente sovrapporsi e richiamare quella nota al nostro immaginario occidentale, riuscendo nell'empatico e raffinato gioco stilistico di trasfigurare le maestranze in Samurai precipitati nella Modernità... Allora un panorama non motivato da esigenze paesaggistiche - come pure verrebbe facile a Forno eseguire, stante il suo allenatissimo occhio occidentale... - prende forma coerente, senza soluzione di continuità, tra una Natura che ancora si avverte ammirata e Manufatti che ancora tentano un'integrazione con essa...
Allora la parzialissima visione di angolari particolari, si tratti di minimi tubi o di importanti pezzi strutturali della costruenda nave, evolve e diventa universo Zen, laddove nel poco che si vede o che si mostra (forse) sta il tutto che Forno riesce a farci intuire...
Allora ed infine, il preciso e puntuale avvicinarsi e collimare di questi pennellate fotografiche giapponesi, traccia con nitida chiarezza un poetico componimento documentale di suggestiva contemporaneità: un modernissimo Haiku fatto di tre scatti alla volta, come da Tradizione...
Marco Riolfo, 2015
La regola del tre
Sono tre non a caso gli elementi che reggono il filo di questo nuovo racconto fotografico di Luca Forno: un numero, appunto, l'armonizzazione di un contrasto, e una grande metafora.
Il numero è il tre, lo stesso dell'Haiku, modalità di composizione poetica di origine giapponese che prevede appena tre versi in diciassette more. Sembra facile ma per comporne uno serve tempo, precisione e qualcosa da dire in chiave poetica contemplando per giunta un salto logico.
Nel racconto di Forno si trova un'altra similitudine, oltre al numero tre, che ha a che fare con l'Haiku, ossia il rapporto tra l'uomo e la natura. Prima, per capirci, un esempio che vi parrà ancora più chiaro scorrendo le immagini del libro. E' una composizione di Issa, pittore e poeta giapponese vissuto a cavallo tra '700 e '800. Dice:
Non piangete, insetti -
gli amanti, persino le stelle
devono separarsi.
Il salto logico qui è addirittura marcato da un trattino. E serve a noi qui per entrare nel mezzo del racconto. Come convivono su una stessa isola un grande cantiere navale, quello di Oshima e le meraviglie incontaminate del parco di Sakai?
Il salto logico è evidente, il contrasto netto però dalle fotografie di Forno si intuisce che il compromesso possibile con buona pace di tutti. Così come non è possibile, a quanto si vi vede, da altri elementi che caratterizzano la cultura, la religione, la tradizione giapponese.
Troveremo quindi luoghi di preghiera in mezzo alla natura ma dentro il cantiere, incontreremo personaggi quasi mitologici, vedremo alberi di ciliegio colmi di fiori bianchissimi. Tutto in armonia, L'armonia del contrasto, salto logico quindi, sottolineato ancor più dallo straordinario bianco e nero che contraddistingue tutta l'opera di Luca Forno, che il colore, anche a scopi poetici ve lo lascia immaginare.
Infine la metafora. Le immagini che di più sollecitano la fantasia in questa storia sono i ritratti di questi uomini - che mi piace definire operai samurai - che costruiscono le grandi navi di Coeclerici. Li vedrete impegnati in imprese solo apparentemente più grandi di loro, protetti nelle loro maschere che sembrano ideate per una messinscena teatrale e che invece servono a "combattere" lancia (termica) in resta per saldare i giganteschi pannelli d'acciaio dello scafo di un gigante del mare. E tutto sembra seguire un ordine scandito da un numero, come l'Haiku o come le sequenze di Luca Forno che procedono appunto a gruppi di tre, nell'armonia poetica della stacco logico, scattato in tecnologia digitale.
Roberto Orlando, 2015
Continuità contigua
Nel mondo occidentale del terzo millennio la riconversione industriale o la reindustrializzazione sono tappe decisive per mantenersi agganciati alla tradizione e alla necessità economica del "fare", del produrre oggetti utili o anche superflui purché commerciabili. La sfida è produrre sempre meglio, è una sfida prevalentemente tecnologica, è la sfida del "mai come noi nessuno prima". Molto spesso per resistere e rilanciare la scommessa con il futuro la vecchia fabbrica viene dismessa: gli spazi vengono abbandonati nella peggiore delle ipotesi o riciclati per usi commerciali o residenziali nelle circostanze migliori. Poi c'è una terza ipotesi: demolire tutto e ricominciare daccapo, a partire proprio dal contenitore che dovrà ospitare le produzioni future. A volte la terza soluzione è inevitabile: alcuni vecchi stabilimenti non sono in grado di accogliere impianti che l'aggiornamento tecnologico impone.
Luca Forno nel suo ultimo libro fotografico, della serie che illustra le aziende dell'ormai decisamente eclettico gruppo Coeclerici, racconta una storia un po' diversa di riconversione industriale, una storia, per così dire, di continuità nella contiguità. E' la storia della Goebel IMS di Darmstadt, in Germania, azienda che produce quelle macchine di cui di solito si fatica a immaginare l'esistenza perché nell'immaginario comune sono così lontane dal prodotto finito da risultare quasi invisibili in un impenetrabile mondo parallelo. Goebel IMS produce taglierine bobinatrici per il taglio di carta e cartone, film plastico e alluminio, carte per sigarette e materiali per imballaggio dei prodotti alimentari che finiscono ogni giorno sulle nostre tavole.
Prendere in considerazione l'idea che esista un rapporto di causa-effetto tra le macchine rotanti raffigurate da Luca Forno e un quarto di pollo nella sua vaschetta da supermercato è già di per sé un'impresa difficile. Ma è ancor più sorprendente scoprire - grazie ad altre immagini della carrellata in rigoroso bianco e nero - la storia "architettonica" dell'azienda che realizza queste bobinatrici. Il corpo centrale della fabbrica è lo stesso delle origini ottocentesche, un'opera realizzata in mattoni, ad ampie campate, con i lucernai che disegnano il profilo iconografico dello stabilimento tipo, con quell'andamento a zig zag che sempre uscito dalla matita di un bambino.
Ma proprio accanto alla struttura più antica, la modernità evidentemente preme e nella fotografia sapiente di Luca Forno - dove la cura del dettaglio è decisiva oltre che davvero sorprendente - sembra quasi voler compenetrarsi con il suo passato fisico, architettonico e anche ideale. Così, in un fine gioco di linee geometriche nette che si sfiorano e s'incrociano, si dipana un racconto di tradizione, di progresso, di sviluppo, di umano ingegno e di insostituibile lavoro manuale: sia sotto le antiche volte della fabbrica sia negli ambienti degli edifici adiacenti, quelli più moderni, nel segno appunto della contiguità architettonica nella continuità storica dell'azienda. Insomma se qualcosa si trasforma, il resto alla Goebel IMS pare si mantenga molto bene...
Roberto Orlando, 2018
Un diverso punto di vista
Molti sono i fotografi che hanno provato a descrivere con immagini il Galata Museo del Mare per rappresentare il rapporto tra gli spazi, le opere e i suoi i visitatori.
Luca Forno è riuscito a coglierne l’essenza di impresa culturale, che ha l’obiettivo non solo di tutelare e valorizzare il patrimonio che conserva ma anche di essere un polo culturale a servizio della città. Le immagini testimoniano l’intimo rapporto tra le opere e il suo pubblico e il legame dell’edificio con Genova e con il suo porto in un gioco di riflessi e scorci abitati da turisti e visitatori.
Il bianco e nero di queste immagini mette in risalto la fragilità e la solidità di quello che un tempo era l’arsenale della Repubblica di Genova e che oggi è uno spazio pubblico restituito alla comunità.
Anche l’Associazione Promotori porge un sincero ringraziamento a Luca e alla Coeclerici per averci consegnato uno sguardo inconsueto e straordinario del nostro museo.
Anna Dentoni, 2019
Una fabbrica di cultura
Siamo stati abituati, o addirittura educati, a considerare il museo come un luogo particolare, protetto, quasi sacrale. Ma, se andiamo oltre alla percezione immediata, di solito il concetto che noi abbiamo è quello di un “deposito”: lo spazio dove viene conservato un materiale prezioso, l’opera, il reperto.
Il museo, allora, diventa tempio (dell’arte, della storia) e contemporaneamente cassaforte, nella contraddizione evidente: l’opera a disposizione di tutti, attraverso l’esposizione, è sottratta a tutti, attraverso la sua intangibilità.
Il pregio dell’ultimo lavoro di Luca Forno è quello di rimettere in discussione questo concetto. Nei suoi scatti, il museo diventa fabbrica. Può sembrare strano: ma è così. Il cambiamento di questi ultimi trenta anni nella museologia e nella museografia, ha rovesciato concezioni secolari: l’opera, il reperto, dal suo ingresso in museo viene catalogata, studiata, restaurata. Quando viene avviata all’esposizione, questo accade dopo un percorso di ricerca su come l’opera dialoga con l’allestimento e il pubblico. Sempre di più, nei nostri spazi, la progettazione occupa uno spazio determinante e appare come vero atto creativo.
Potremmo dire che oggi, nei nostri musei, e nel Galata Museo del Mare più che in altri, l’ostensione si accompagna alla narrazione. Ed è questo che determina l’aspetto emergente di industria creativa e di fabbrica immateriale.
Ma, se è così, cosa si produce, allora, in un museo?
Un tempo, preda noi stessi del neopositivismo progressista, avremmo detto: “conoscenza”.
Oggi, in una stagione buia – e qui la scelta del black & white appare significativa – credo che possiamo affermare che il museo è soprattutto una fabbrica di domande, di interrogativi sulla nostra identità e sui nostri percorsi: prodotti intangibili ma non per questo meno efficaci.
Pierangelo Campodonico, 2019
Foto – grafie di un’idea …
Per quanto possa sembrare semplice il nuovo lavoro fotografico di Luca Forno - affidatogli con la consueta lungimiranza dalla Coeclerici ed ulteriore capitolo del pluridecennale viaggio autoriale del Nostro nella realtà aziendale del Gruppo… - le cose, come spesso accade, sono ben diverse da come appaiono e certo un fotografo come Forno lo sa e sa mostrarcelo: la semplicità è (anche) cosa complicata…
Così, l’attenzione indagatrice dell’Autore - filtrata e fissata dalla macchina fotografica - entra a gironzolare, beatamente e consapevolmente estasiata, in un luogo fisico che è anche massimamente metafisico, piazza dechirichiana traslata in chiostro (di Sant’Agostino): il Museo dei Bozzetti ‘Pierluigi Gherardi’ di Pietrasanta, in quel di Lucca. Museo singolarissimo e benemerito, realtà unica nel pur vasto panorama museale italiano, tanto da renderlo sempre più consolidato punto di riferimento internazionale per chi abbia la voglia (intellettuale) o la necessità (storica) di ri-percorrere le lineari tortuosità dell’Idea al suo primo manifestarsi, il primigenio consolidarsi dell’astratto pensato in materica forma.
Un Museo, per così dire, senza opera d’arte, essendo che la stessa - intesa come prodotto finale della creazione artistica - sarà lodevolmente esposta in luoghi altri, siano essi musei, luoghi pubblici, collezioni private o quant’altro. No, al Museo dei Bozzetti prende vita e corpo la prima scintilla di concretezza che dipana il gnommero, direbbe il grande Carlo Emilio Gadda, creativo dell’Artista, smussando la pietra grezza, impastando un gesso ancora indeciso ma promettente, fondendo il metallo o la cera in colata che ancora fluidifica il pensiero - l’idea - raggrumandolo in prova…
Ed è lì che Forno si aggira, con in mano il più formidabile strumento atto a fissare l’istante (più lungo? …) tra bozzetti e modelli che ne esprimono la solidificazione più transeunte: in qualche modo, l’inizio della fine, il viaggio verso l’Opera finale giustappunto o, forse meglio, finita… E lo fa utilizzando la dualità cromatica in cui è Maestro, un bianconero fatto di delicate e sottili sfumature, riflessi apparentemente semplici, si diceva, che sono però riflessioni non banali e non banalizzanti sull’aleatorietà del primo momento creativo artistico, e lo fa mettendosi in gioco, empaticamente sovrapponendo la sua visione a quella abbozzata dallo Scultore: lo scatto della prova mette alla prova lo scatto…
Il risultato è un Bianco sfuggente, betullaneo, increspato, sporco della fuliggine creativa in atto, è un Nero spiraglioso, che intuisce la Luce e già si scalda al pensiero di lei, addolcito dalla polvere bianca prodotta da mani che sanno… Insomma, con Forno, lo Spazio incontra la sua narrazione: il Tempo…
Non c’è scelta, of course: fotografie da vedere, Museo da visitare.
Marco Riolfo, 2021
Un'impresa per la cultura della città
Nel maggio 2021 il Mu.MA ha proposto alla Fondazione Paolo e Giuliana Clerici l’acquisizione dell’Archivio fotografico Francesco Leoni, un’importante impresa per la cultura della città. Nel settembre dello stesso anno l’archivio di Piazza della Vittoria è stato trasferito al secondo piano del Galata Museo del Mare.
Si tratta di un patrimonio di oltre 3 milioni di immagini che racconta Genova dagli anni ’30 ai ’90 del secolo scorso. Nella sua lungimiranza Francesco Leoni, giustamente chiamato Maestro dai suoi collaboratori, ha raccolto nel corso del tempo anche altri quattro archivi fotografici cittadini: Metra, Vivenzio Pagano, Castellò, Raffin, realizzando così un multi-archivio. Un patrimonio prezioso legato a Genova e alla sua storia da preservare, studiare e rendere fruibile.
Questo è ciò che prevede il progetto di valorizzazione pensato dal Direttore Pierangelo Campodonico e dal suo staff: rendere accessibile al pubblico e agli studiosi questo patrimonio iconografico, attraverso mostre nelle sale del museo e online, contribuendo alla promozione del valore del territorio e della città di Genova.
Un’occasione unica sia per la tipologia e la consistenza del materiale: negativi, diapositive, stampe vintage, lastre, sia per l’ampiezza dei temi trattati. Francesco Leoni ha infatti immortalato la storia di Genova. È stato presente a scontri in piazza e a grandi eventi politici, documentando i grandi cambiamenti politici e di costume e ha potuto così lasciarci, per chi la sa cercare, una testimonianza della trasformazione di Genova.
Proprio alla trasformazione della nostra città Luca Forno si è ispirato per questo tredicesimo volume della raccolta I Quaderni d’Impresa della Coeclerici.
Rispetto agli altri volumi, in questo ultimo libro sono presenti anche delle pagine a colori: un passaggio necessario, sia per valorizzare le immagini storiche in bianco e nero scelte tra le infinite possibilità dell’Archivio, sia per meglio rappresentare le trasformazioni che Genova ha avuto nel corso del ‘900.
Era importante non disperdere questo materiale e la Fondazione Paolo e Giuliana Clerici ha voluto essere accanto al Mu.MA, ancora una volta anche in questa iniziativa, dopo l’apertura della Sala Coeclerici e la pubblicazione della collana sulla storia della marineria italiana.
Un grazie a Paola Leoni, per la disponibilità e la cura che continua a dedicare all’Archivio di suo padre e a Luca Forno, per come è riuscito ancora una volta a trasformare i progetti di Coeclerici in volumi narranti.
Anna Dentoni, 2022